"La Cina, culla del calcio", così Blatter (FIFA) nel 2004. Cenni sul Cuju cinese e il Kemari giapponese. - Jworld.it

“La Cina, culla del calcio”, così Blatter (FIFA) nel 2004. Cenni sul Cuju cinese e il Kemari giapponese.

kemari

Si stenta, ancora oggi, a stabilire dove sia nato il calcio (o meglio il football). Ed anche se agli Inglesi va il merito di averne dettato le regole e di averlo esportato nei territori di conquista, il gioco coi piedi, per meglio dire i giochi coi piedi, sono stati davvero tanti, disseminati nei territori più disparati. Andando a ritroso nel tempo arriviamo nientemeno che al 2500 a.C., epoca in cui a Zibo, città della Cina, della provincia di Shandong, i militari dell’esercito di Huang Di, l’Imperatore Giallo, cominciavano a praticare una disciplina che prevedeva si calciasse una palla coi piedi.

Nasceva così il Cuju (da cu, calciare e ju, palla). Che presto si diffuse in Giappone, Thailandia e Corea. Chiamato anche tsu-chu (palla colpita col piede), fu definito “protocalcio” dal grande Giorgi Tosatti. Ancor più fece Joseph Blatter, quando nel 2004, allora presidente della Fifa, dichiarò ufficialmente che il calcio era nato a Zibo e la Cina ne era la culla. Non poche furono le polemiche, è facile immaginarlo. Gli Inglesi (ancora una volta!) ci rimasero male, rivendicando di essere stati i veri ed unici genitori del “pallone”. I Cinesi, di contro, senza esitare, di lì a poco passarono ad inaugurare un grande Museo sulle origini del Calcio, proprio a Zibo.

Il cuju si giocava esclusivamente coi piedi, forse per questo motivo è ritenuto l’antesignano del nostro football. C’è una mappa nel Museo di Zibo, su cui è tracciato un simbolico viaggio tra siti geografici che, anche con l’anello di congiunzione dei vecchi mercanti della Via della Seta, sono quasi accomunati dai tratti di chi ha dato le origini all’amato calcio. Vi figurano l’Egitto, dove erano diversi i giochi con la palla, la Grecia classica dove si giocava l’Episkyros, e l’Harpastum, una derivazione di quest’ultimo, praticato nell’antica Roma.

Restando in Asia dobbiamo riferire del Giappone nel quale si diffondeva, nel VII sec. d.C., la pratica sportiva del Kemari. Molti lo fanno discendere dal cuju, pur essendo da quest’ultimo sostanzialmente diverso. Mari è il nome della palla con cui si gioca. Fatta di pelle di cervo, solo per darle una forma più possibile sferica, la si riempie di chicchi d’orzo, che poi vengono tolti. Alla fine la si ricuce con pelle di cavallo. Praticato ancor oggi nei santuari shintoisti, il Kemari ha lo scopo di non lasciare mai che la palla tocchi terra. La sfera può essere palleggiata dai giocatori con piedi, ginocchia, testa, gomiti e schiena.

Mai con le mani. Ogni lato del kakari, il quadrato all’aperto su cui si gioca, misura da sei a sette metri. Agli angoli ci sono quattro alberi diversi, un ciliegio, un acero, un pino e un salice. Solitamente i giocatori erano otto. Si andava da un minimo di due a un massimo di dodici. Il Kemari, che coinvolge tutto il corpo, non era uno sport competitivo, piuttosto di cooperazione tra i giocatori, il cui scopo comune era, appunto, quello di palleggiare senza far toccare terra alla palla. Le classiche due squadre contrapposte erano, invece, la caratteristica del Cuju. Ogni compagine poteva schierare dai 12 ai 16 giocatori.

Anche Marco Polo è stato “coinvolto” nella importazione di tali pratiche sportive. In maniera piuttosto fantasiosa. Naturalmente.

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